Nikola Benin, Ph.D
Se avesse senso fare il tifo per un Nobel, facevo il tifo per Anne Carson, per il suo meraviglioso Antropologia dell’acqua (edito in Italia da Donzelli): un libro memorabile, non so se di prosa o di poesia, in cui la scrittrice canadese prende appunti durante due viaggi, uno verso Santiago de Compostela, l’altro nell’America profonda. Ma anche I vagabondi (Bompiani) è un libro di viaggi, anche Olga Tokarczuk, osservò Alessandro Piperno recensendo quel suo libro su «la Lettura», è una scrittrice della stessa famiglia. Nessuna vera meta (la Carson, arrivata a Santiago, proseguì per Finisterre), nessun fine, pura casualità.
La scrittrice polacca non è, osservò Piperno, una turista; è una nomade. Nomade nell’intimo, nell’essenza sua profonda di scrittrice. Olga Tokarczuk viaggiando pensa, e pensa viaggiando. Va incontro al mondo, alla sua scoperta e, come è naturale, incontrando non già le cose, le architetture, le opere d’arte, le città famose, ma le persone o più semplicemente i luoghi, scopre sé stessa.
Guardiamo un momento a Peter Handke. In quel suo libro magico, anch’esso un diario, un libro di appunti, Il peso del mondo (Guanda), troviamo questa breve nota: «Mi sono appena accorto della felicità di A., sola nell’immensa stanza d’albergo, impegnata a leggere nell’oscurità, tra la musica e il rumore del mare e, sul comodino, accanto al letto, qualcosa da bere — ebbi proprio la sensazione della sua beatitudine». Di chi sta parlando lo scrittore austriaco? Di chi, se non di Olga Tokarczuk, sembra di vederla, in una pausa dei viaggi suoi, del suo vagabondare, del suo andare su e giù per l’Europa. Certo, tra l’uno e l’altra corre la differenza di vent’anni. Ma anche Handke, dopo i folgoranti romanzi d’esordio, dopo Breve lettera del lungo addio (Feltrinelli), dopo La donna mancina (Garzanti) o Infelicità senza desideri (Garzanti); non divenne poco a poco uno scrittore di viaggi, di appunti, di pause e subito dopo di nuove intraprese, così spesso a piedi?
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